di David A. Tizzard per The Korea Times
Traduzione di Simodreams
Ci sono serie TV che ci intrattengono. Alcune che ci mettono alla prova. Molte che ci annoiano o ripetono all’infinito cliché ormai consumati. E poi ci sono quelle rare storie che ci tengono uno specchio davanti all’anima, alla nostra vita, e sussurrano piano: “Questo sei tu.”
È una voce inconfondibile. All’inizio fa paura. È scomoda. Ma con il tempo ne riconosci il valore.
“When Life Gives You Tangerines” è proprio quella voce. Non è solo un drama coreano, è una meditazione su vita, morte, amore, e tutto ciò che sta nel mezzo. Un rituale di guarigione travestito da intrattenimento.
La trama, che si snoda lungo tre generazioni, ricorda le difficoltà di “Pachinko,” la magia di “Cent’anni di solitudine” e lo splendore epico del “Sorgo Rosso” di Mo Yan. Racconti di destino familiare, dello scorrere del tempo, e di come le vite personali si intreccino con l’universo più ampio fatto di natura, economia e storia.
All’inizio si svolge nella bellezza aspra e ventosa dell’isola di Jeju, poi si sposta tra le strade di Seul, fatte di cemento, pop e politica. E sebbene sia profondamente ancorato al tempo in cui è ambientato – qualcuno ha giustamente evocato “Forrest Gump” o “Ode to My Father” per la sua capacità di evocare costantemente nostalgia e momenti storici dimenticati – il drama risulta senza tempo.
Osserviamo famiglie che si costruiscono e si disgregano, persone che si innamorano e si lasciano, sogni che nascono e si spengono in silenzio. E in tutto questo, dal divano o dal letto, attraverso le cuffie mentre mangiamo in una piccola locanda, accade qualcosa di straordinario: iniziamo a riflettere sulla nostra vita. Sulle nostre famiglie. Sulle nostre scelte. I nostri fallimenti. I nostri piccoli successi. I sogni abbandonati.
C’è una strana, quasi rassicurante, forma di voyeurismo nel guardare la vita altrui svolgersi davanti a noi. È un rifugio.
In un mondo in cui gli algoritmi dei social ci spingono a mostrarci sempre perfetti, questo drama ci invita a ricordare le nostre cicatrici. Ci lascia piangere – non solo per la tristezza, ma per il riconoscimento.
Le lacrime diventano medicina. I sorrisi, un abbraccio caldo. E i silenzi? Parlano, forte e chiaro.
Questa risonanza emotiva non è casuale: nasce da una scrittura potente e da interpretazioni profonde. I personaggi non sono simboli, né versioni idealizzate di qualcosa. Sono, seppur più belli di noi, noi stessi: contraddittori, confusi, gentili, rancorosi, amorevoli, spezzati e pieni di speranza.
Col tempo, ci rendiamo conto che anche quei personaggi che avevamo giudicato con durezza sono stati forgiati da storie e traumi che all’inizio non conoscevamo. Le loro scelte, per quanto sbagliate, cominciano a prendere senso.
Questa è empatia, svelata con delicatezza.
E non va sottovalutato il fatto che la protagonista sia la più grande pop star del paese. Proprio come in “My Mister,” IU offre una performance brillante.

Natura e cultura
Eppure, nella prima parte della serie, il vero protagonista non è umano. È la natura.
Presente in ogni momento cruciale: un funerale, un matrimonio, una crisi, una celebrazione. Non è uno sfondo, è una presenza viva.
I ritmi naturali di Jeju scandiscono la vita: cosa si mangia, in cosa si crede. I draghi, gli spiriti del mare, i venti di montagna non sono fantasia: sono reali quanto la fame o il lutto.
La natura, in questo mondo, è potente ma neutra. La pioggia non è crudele. Il sole non è benevolo. La natura, semplicemente, è.
E in quella neutralità silenziosa c’è una bellezza spaventosa. Ci ricorda il nostro posto: non come padroni, ma come partecipanti.
Nella seconda parte, però, la natura si ritira. A prendere il suo posto è una nuova divinità: l’economia.
Il Fondo Monetario Internazionale arriva come un tifone, sconvolgendo vite e lasciando macerie.
Il denaro diventa il nuovo vento, altrettanto incontrollabile, altrettanto impersonale.
Si smette di pregare gli spiriti del mare e si comincia a temere l’andamento della borsa.
L’angoscia esistenziale rimane, ma cambia forma. Un tempo era una stagione di pesca andata male. Ora è un investimento sbagliato.
Eppure, la gente resiste.
Ciò che colpisce – e forse è profondamente coreano – è che questo drama rifiuta di offrire eroi o cattivi.
Le persone sbagliano, anche in modo imperdonabile. Ma ci viene mostrato l’arco narrativo completo, il peso dietro ogni errore. La crudeltà nasce dalla perdita. La gelosia dall’abbandono.
Invece di giustificare queste azioni, la serie ci chiede di comprenderle. E nella comprensione, forse, nasce il perdono. Non per il loro bene, ma per il nostro.
Un abbraccio invisibile
Tutto questo è attraversato da un concetto profondamente coreano: jeong.
Difficile da tradurre. Non è solo amore, né semplice affetto. Jeong è il filo invisibile che unisce le persone. È la lealtà silenziosa verso la famiglia, il vicino, l’amica d’infanzia. È un abbraccio invisibile. Un leggero tirare della manica che ti ricorda che fai parte di una rete.
Le traduzioni occidentali spesso trascurano queste sfumature, mentre i dialoghi coreani ci rammentano costantemente i legami: “la madre di Ae-sun,” “la figlia di Bu Sang-gil,” “la nonna del villaggio”.
I titoli non definiscono una gerarchia, ma una connessione.
In questa visione del mondo, non puoi essere umano da solo. La tua umanità si definisce attraverso le tue relazioni. Solo nell’isolamento totale, forse nel culto dell’iperindividualismo che tanto viene celebrato oggi, inizi a perdere la tua umanità.
Questo drama sussurra questa verità ripetutamente. Attraverso una parola gentile Attraverso il riso. Attraverso il silenzio condiviso tra due persone che un tempo si odiavano.
Stranamente, questo drama così profondamente toccante e ricco di riferimenti culturali è passato quasi inosservato dai media britannici. The Guardian e la BBC sono rimasti in silenzio. Basta confrontarlo con l’entusiasmo riservato a Squid Game, una serie fatta di sangue, tradimenti e morte.
I media occidentali, consapevolmente o meno, sembrano attratti soprattutto dalle visioni distopiche della Corea. Sono storie che fanno notizia. Parlano di suicidi, sfruttamento, alienazione.
Ma tralasciano qualcosa di essenziale. Si perdono il jeong. Ignorano la forza gentile dei legami familiari. Non vedono la bellezza dell’imperfezione, la poesia nascosta nella vita quotidiana.
E, prima che me ne dimentichi: sì, tutto questo drama è una poesia. Una poesia scritta dalla protagonista Oh Ae-sun e infine pubblicata. Ogni capitolo della sua vita viene finalmente messo su carta quando trova il coraggio di affrontare il passato, con tutte le sue luci e le sue ombre.
“When Life Gives You Tangerines” fa proprio questo.
Dice la verità. Una verità lenta, silenziosa, su cosa significhi vivere, invecchiare, rimpiangere, perdonare. E così facendo, ci ricorda che non siamo soli. Che il nostro dolore non è unico. Che la nostra gioia non è sciocca. Che la guarigione è possibile, anche solo attraverso uno schermo, con una tazza di tè e qualche lacrima che scivola piano sulla guancia.
Forse è questo il massimo che possiamo chiedere all’arte: non risposte, ma riconoscimento. Non evasione, ma ritorno. Non perfezione, ma presenza.
Quando la vita ti offre dei mandarini, ti siedi, li sbucci lentamente, e ricominci.
Perché la vita trova sempre una strada.